
Le scelte dei consumatori si muovono sempre più verso stili di vita sani e consapevoli. In questo scenario, il comparto del vino dealcolato rappresenta una nuova frontiera di mercato.
Ma in Italia, patria dell’eccellenza vitivinicola, l’innovazione si è fermata prima ancora di partire – senza che si siano neppure favorite direzioni alternative.
Basterebbe confrontarsi e pianificare strategie a beneficio dei produttori, dei prodotti e del mercato, anziché lasciare che l’inerzia normativa blocchi ogni possibilità.
Una norma che autorizza la produzione, ma non la commercializzazione
Nel dicembre scorso, un decreto ha finalmente autorizzato la produzione nazionale dei “vini a bassa gradazione” (≤ 0,5 % vol.). Tuttavia, il decreto fiscale che dovrebbe regolare questi prodotti entrerà in vigore solo nel 2026. Fino ad allora, in assenza di un quadro fiscale e doganale adeguato, la commercializzazione in Italia è di fatto impossibile.
Il risultato? Le aziende italiane interessate sono costrette a esternalizzare il processo di dealcolazione verso Paesi come Germania e Spagna, dove le normative sono già definite e le filiere operative.
Un paradosso: esportiamo l’innovazione, per poi riacquistare il prodotto finito, con costi maggiori e valore aggiunto perduto.
“Siamo fermi mentre gli altri corrono”, denunciano i produttori italiani.
E mentre l’Italia resta alla finestra, il mercato corre:
il vino dealcolato potrebbe valere oltre 4 miliardi di dollari entro il 2032, e l’intero comparto delle bevande “no e low alcohol” (vino, birra, spirit, fermentati naturali) potrebbe raggiungere i 30 miliardi entro il 2025.
Numeri e tendenze a confronto
Il segmento dei vini dealcolati cresce a doppia cifra:
- Europa (2021): €322 milioni – 42 milioni di litri (70% vini frizzanti)
- Crescita stimata: +7–10% annuo (vs +1% del vino tradizionale)
- Italia: fatturato stimato di $62 milioni, frenato dall’assenza di un quadro normativo operativo
Ma non si parla solo di vino.
A livello internazionale si stanno affermando anche fermentati alternativi come la kombucha, bevanda a base di tè fermentato con proprietà probiotiche:
- Europa (2022): $686,6 milioni → $3,7 miliardi entro il 2032 (CAGR 18,5%)
- Globale (2023): $2 miliardi → $5,9 miliardi entro il 2029 (CAGR ~20%)
Queste bevande non alcoliche non nascono per sostituire il vino, ma per diversificare l’esperienza del bere con alternative salutari, sofisticate e a basso impatto. Una sfida – e un’opportunità – anche per chi opera nella trasformazione agroalimentare.
Innovare senza snaturare: una strategia per il made in Italy
L’identità del vino italiano non è in discussione. Al contrario, l’introduzione di un segmento dealcolato può:
- Rafforzare la reputazione delle nostre etichette all’estero
- Intercettare nuove generazioni e occasioni di consumo
- Ampliare la gamma senza tradire la tradizione
Allo stesso tempo, i produttori italiani potrebbero guardare con maggiore attenzione al mondo dei fermentati naturali, come la kombucha o le nuove linee a base di frutta fermentata, che uniscono artigianalità, benessere e innovazione.
Serve una svolta normativa (subito)
Se il quadro fiscale e doganale resterà sospeso fino al 2026, l’Italia rischia di perdere il vantaggio competitivo e il treno dell’innovazione.
Per questo motivo, la filiera chiede con forza:
- L’anticipazione dell’entrata in vigore della nuova disciplina fiscale
- Misure transitorie che permettano già oggi di avviare la produzione e la commercializzazione in Italia
Ma non basta. Serve anche una visione agroalimentare più ampia, capace di sostenere l’innovazione investendo in nuove categorie di prodotto, come la kombucha e altri fermentati naturali.
Bevande che nascono da una cultura della fermentazione radicata, ma reinterpretata con sensibilità moderna, e che possono costituire una nuova frontiera del made in Italy consapevole, orientato alla salute, alla sostenibilità e al valore.
Conclusione: la tradizione non si difende chiudendosi, ma evolvendosi
L’Italia può – e deve – essere protagonista anche in questo segmento. Serve il coraggio di aggiornare la cornice normativa e quello di innovare rispettando la natura del prodotto, magari guardando oltre il vino, verso nuovi orizzonti fermentativi.
Perché la qualità italiana è un valore che può – con equilibrio – rinnovarsi, senza perdersi.