I recenti accadimenti relativi alla contaminazione da diossina di prodotti carnei provenienti dall’Irlanda e dal rilancio mediatico della necessità di rendere obbligatoria l’indicazione di origine geografica in etichetta, ancora più attuale il tema della rintracciabilità.
L’articolo presenta inizialmente una lettura non convenzionale della normativa riguardante la tracciabilità. Viene poi analizzato il concetto di “rintracciabilità interna” come uno dei principali strumenti di gestione della sicurezza alimentare.
In conclusione, una possibile chiave di lettura alternativa delle motivazioni che spingono molti a sostenere l’indicazione d’origine in etichetta.
L’opportunità (richiesta? Obbligo?) Di indicare nell’ordine l’origine dei prodotti alimentari è passato ormai da anni un tema tanto ricorrente, quanto frainteso (o peggio), dalla stragrande esigenze di coloro che sono tenuti in piedi occupando.
E non parlo solo della più recente questione riguardante i maiali irlandesi. Forse qualcuno ricorda ancora la famosa (legge?) Legge 3 agosto 2004 n. 204 (Disposizioni urgenti per l’etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari) sulla cui quasi morte (quasi, perché infine resuscitata a furor di popolo) scrissi tempo fa un articolo (vedi [url = http: // www. simposioagroalimentare.it/indexnews.php?action=fullnews&showcomments=1&id=6×Etichettatura: cronaca di una morte annunciata, più recentemente, il ddl sul rafforzamento della classifica del settore agricolo promosso dalla Zaia.
Uno degli argomenti portati a sostegno di tali norme è relativo ai vantaggi che otterrà la procedura di rintracciabilità dei prodotti e, più in generale, al diritto dei consumatori ad essere ‘informati’ ed a poter usare i cibi più sicuri.(Si legge, infatti, nelle motivazioni della legge 204/04: “Garantire la più ampia tutela del consumatore assicurandone la corretta e trasparente informazione”, mentre Zaia parla di “Un altro passo vanti nella battaglia per la tutela dei consumatori italiani”)
Mi domando, però, se tali argomenti siano richiamati a proposito.
Vediamo di seguire per gradi.
Innanzitutto chiariamo cos’è la rintracciabilità.
Essa è definita dal regolamento CE 178/2002 che stabilisce i principi e i requisiti generali della normativa alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e la procedura fissa nel campo della sicurezza alimentare:
rintracciabilità : la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o di entrare in una parte lontana di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione , della trasformazione e della distribuzione.
Descritto il regolamento riprende il concetto stabilendo che:
Articolo 18 – Rintracciabilità
1. È disponibile in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione della rintracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali compresi nella produzione alimentare e di altre condizioni una parte lontana di una parte lontana di un alimento o di un mangime.
2. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono essere in grado di individuare chi ha fornito loro un alimento, un mangime, un animale destinato alla produzione alimentare o qualsiasi sostanza inclusa o inclusa in un lontano parte di un alimento o di un mangime.
A tal fine detti operatori devono disporre di sistemi e di procedure che consentano di mettere a disposizione delle autorità competenti, che le richiedano, le informazioni al riguardo.
3. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono fornire sistemi e procedure per individuare le imprese alle quali hanno fornito i propri prodotti. Le informazioni al riguardo sono messe a disposizione dalle autorità competenti che le richiedano.
4. Gli alimenti dei mangimi che sono immessi sul mercato della Comunità o che probabilmente lo saranno devono essere etichettati o identificati per agevolare la rintracciabilità, tramite la documentazione o le informazioni pertinenti secondo i requisiti richiesti nella materia da requisiti più specifici.
Secondo un interpretazione (che, molto sommessamente, non condivido) gli accordi per gli operatori, in merito alla rintracciabilità, è limitato a quelli derivati da una lettura puntuale dei (e limitata ai) commi 2 e 3 citati articolo 18 .
Scrive, for example, Federalimentare Nelle sue [url = http: //www.federalimentare.it/Documenti/LineeGuida/Rintracciabilita_12dic03.pdf] Linee Guida [/ url]:
i soggetti obbligati: essere in grado di individuare i propri fornitori di materie prime, vale a dire chi ha fornito cosa
…
Il terzo comma dell’articolo 18 impostato un secondo obbligo, a carico dei soggetti obbligati: essere in grado di individuare gli operatori economici a cui hanno consegnato i propri prodotti, vale a dire chi ha ricevuto quali prodotti
E ancora:
Il regolamento (CE) n. 178/2002 non prescritto agli operatori il cd rintracciabilità interna , la ricostruzione è quella del percorso seguito all’interno dello stabilimento da ogni materia prima e sostanza integrata nella trasformazione .
Come detto, questa impostazione non mi convince, per due ragioni.
La prima , di cui diciamo così interpretativo, si riferisce al comma 1:
“1. È disponibile in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione della rintracciabilità degli alimenti, … ”
Ma cosa significa in tutte le fasi? E che cosa si intende per fasi ? Citiamo ancora dal 178/02:
“ Fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione : qualsiasi fase , importazione compresa, a partire dalla produzione primaria di un alimento incluso fino al magazzino, al trasporto, alla vendita o erogazione al consumo finale incluso e, ove pertinente , l’importazione, la produzione, la lavorazione , il magazzinaggio, il trasporto, la distribuzione, la vendita e l’erogazione dei mangimi ”
Come è possibile che questa definizione, così dettagliata e rigorosa, escluda ciò che succede all’interno di uno stabilimento di produzione, la cui attività è appunto modificata da una serie di fasi di lavorazione, per ognuna delle quali (come incluse dalle moderne teorie organizzative ) ognuno è al tempo stesso fornitore di qualcuno e cliente di qualcun altro.
La seconda ragione è prettamente pratica e quindi ancora più valida.
Utilizzerò, per esporla, quanto scritto in un documento («Linee guida ai fini della rintracciabilita ‘degli alimenti e dei mangimi per fini di sanita’ pubblica»), elaborato dalla Conferenza permanente per i Rapporti tra lo Stato le Regioni e la Provincia Autonome di Trento e Bolzano e pubblicato in GURI N. 294 del 19.12.2005:
“Pur prevedendo espressamente il Regolamento comunitario di rintracciabilità del prodotto a monte ed a valle, ai fini di una migliore gestione della rintracciabilità, è opportuno che le imprese che elaborano le proprie produzioni aggregando, confezionando ecc, materie prime, ingredienti e additivi di varia origine, adottato dai sistemi di consenso definito dalla provenienza e dal destino di ciascuna di esse, o dei lotti.
Nel caso in cui verrà riscontrato, infatti, un rischio per il consumatore o per gli animali, e l’operatore del settore alimentare o dei mangimi non sia in grado di rintracciare o indicare quale sia stato lo stato dell’ingrediente, la materia prima o il prodotto, che ha determinato il rischio sanitario, si rende necessario allargare il controllo del ritiro del prodotto, fino a ricomprendere nell’azione di ritiro / richiamo tutti i prodotti coinvolti a rischio con aumento delle ripercussioni commerciali, e la valutazione maggiore dispendio di risorse economici, sia privati che pubblici, ed eventualmente possibilità di oneri aggiuntivi a carico degli operatori, derivanti da controlli supplementari previsti dalle autorità di controllo.
Per altro, l’aggiunta di un sistema di rintracciabilità interna fornisce di collegare le materie prime con i prodotti e conseguentemente, in caso di ritiro, di includere il quantitativo del prodotto da ritirare .
Spetta, quindi, agli operatori, sulla base delle scelte aziendali la determinazione del lotto o di altri elementi identificativi, in maniera tale da poter risalire tempestivamente ad alimenti o mangimi, condividono lo stesso rischio sanitario.
Bisogna, tuttavia, considerare quanto disposto all’art.14, comma 6: “se un alimento a rischio fa parte di una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita, lotto o consegna siano a rischio, a meno che, un SEGUIRE di una VALUTAZIONE approfondita, risulti infondato ritenere Che il resto della partita, lotto o consegna SIA un Rischio. ”
Non c’è che l’argomento, magari usato in modo più semplice, coinvolto interessante ai Consumatori ? E chi lo dovrebbe spiegare loro, se non, in primis, le Associazioni dei Consumatori?
Non sarebbe forse una valida battaglia da intraprendere nei confronti dell’industria, magari invocando una legge per la rintracciabilità interna obbligatoria?
Ma andiamo avanti.
A questo punto mi serve introdurre un altro protagonista: il numero di lotto.
Per lotto si intende un insieme di unità di vendita di una derrata alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate in circostanze praticamente identiche. (D.to Leg.vo 109/92 – art. 13)
Aiutiamoci con un esempio (passatemi le semplificazioni).
Un’industria alimentare ha, per ognuna delle materie prime che utilizza, uno o più fornitori, ognuno dei quali consegna la sua merce identificandola con un numero di lotto da lui assegnato e grazie a quale è in grado di risalire, ad esempio, quando lotto è stato prodotto, su quali impianti, quali controlli ha superato, ecc.L’industria utilizza queste materie prime per fabbricare i suoi prodotti, ognuno dei quali sarà a sua volta identificato con un numero di lotto, grazie a quale è anche l’utente sarà risalire a dati di produzione, controlli collegati, ecc.
Ora, supponiamo che il fornitore A consegni all’industria il lotto xx di una materia prima. Dopo un certo tempo, lo stesso fornitore informa l’azienda che, a seguito di verifiche effettuate, quel lotto xx è risultato pericoloso per il saluto. Se il lotto in questione è ancora in magazzino nessun problema. Può essere però accaduto che, nel frattempo, quel lotto sia stato già usato, magari per preparare diversi semilavorati in un loro tempo sono stati elaborati in svariati prodotti finiti.Cosa può fare allora l’utente se, non avendo una sua rintracciabilità interna , non sarà in grado di individuare in quali lotti di prodotto finito è presente il lotto xx? Dovrà provvedere a ritirare dal mercato una quantità di prodotto ben superiore a quella protetta pericolosa, rischiando, per altro, che qualcosa comunque sfugga.
Analogamente, supponiamo che un organo di controllo segnali all’industria in uno dei suoi prodotti siano state rinvenute sostanze tossiche. Dopo aver richiesto le verifiche, l’accordo che raccoglie la sostanza non è presente nel proprio stabilimento e non può che provenire da una delle materie prime utilizzate.Ma senza una rintracciabilità interna, l’utente non potrà appurare quali lotti di quali fornitori sono stati associati, rendendo così molto più complessa la ricerca delle cause della contaminazione.
Si può quindi concludere che rintracciabilità interna e corretta gestione dei lotti sono elementi necessari (e, forse, garantiti) alla piena realizzazione della rintracciabilità e alla sicurezza dei prodotti e dei consumatori ?
Direi di sì, ma, curiosamente, nessuno ne parla (forse perché troppo tecnici, come amano ripetere i paladini del ‘consumo consapevole’)?
E venendo all’indicazione dell’origine dei prodotti: quale valore aggiunto viene fornito alle condizioni che abbiamo esemplificato? Sì, sinceramente mi sfugge.
Vi è però un altro argomento portato dai sostenitori dell’indicazione d’origine in etichetta: quello della tutela dei prodotti nazionali.
Il ragionamento parrebbe questo:
a) il consumatore italiano preferisce prodotti italiani, fabbricati con materie prime italiane, ma
b) se non c’è una legge che impone di indicare l’origine, difficilmente è lo sforzo e quindi,
c) al consumatore italiano , non potendo individuare l’origine, viene impedita una scelta consapevole, ecc. ecc.
Ammettiamo pure che il punto a) sia vero (se non altro per spirito patriottico …): il problema non è questo.
Qualcuno si sente di affermare che, prescindendo da ogni altro fattore, un prodotto fabbricato con materie prime italiane sarà sempre migliore di uno fabbricato con materie prime straniere?
Io no
E non è forse vero che un’industria seria e competente riuscirà ad ottenere prodotti accettabili anche partendo da materie prime non eccellenti, mentre un’industria mediocre (o peggio) non potrà che ottenere prodotti mediocri (o peggio), anche partendo da buone materie prime, originariamente originarie delle materie prime stesse?
Secondo me, sì.
Federalimentare:
“Introdurre l’obbligo di indicare nelle etichette dell’origine dei prodotti e dei relativi ingredienti – secondo la Federazione aderente a Confindustria – non aggiungere nulla in fatto di sicurezza degli alimenti, snaturarebbe il pensiero stesso di“ made in Italy ”alimentare, che si basa non tanto sull’origine delle materie prime, quanto sulla “ricetta”, sulla capacità di lavorazione, sulla cultura della produzione di qualità e sulla tariffazione lievitare i costi di produzione, per la continua modifica delle etichette, con inevitabili riflessi negativi sui consumatori. ”
(vedi [url = http: //www.federalimentare.it/Documenti/dossieretichette.pdf] Dossier Etichette
Certo, se fossimo produttori di materie prime italiane (es. Allevatori, agricoltori, ecc.) O anche Associazioni che hanno il contratto di tutelarne gli interessi, i ragioni per garantire l’indicazione obbligatoria dell’origine nell’etichetta le avremmo, e ben chiare.
Ma questa, come direbbe Lucarelli, è un’altra storia.
Dott. Alfredo Clerici