
Le microplastiche sono ormai diventate una presenza ubiquitaria negli ecosistemi e nelle nostre vite. Negli ultimi mesi, abbiamo dedicato diversi articoli a questo tema, evidenziando il loro ritrovamento negli ambienti naturali e nei mari più remoti, nell’aria che respiriamo, negli alimenti e nell’acqua che consumiamo e persino nel nostro corpo.
E se fino a ieri un consiglio ricorrente per ridurne l’ingestione era quello di evitare la plastica monouso e preferire contenitori in vetro o acciaio, oggi anche questa raccomandazione vacilla.
Nonostante l’assenza di soglie tossicologiche definite, i dati scientifici che si stano accumulando impongono una crescente attenzione al potenziale impatto delle microplastiche sulla salute. Le micro e nanoplastiche infatti possono entrare nel corpo attraverso aria, acqua e cibo, attraversare le barriere intestinali e raggiungere organi come reni, fegato, polmoni e cervello.
Anche se il quadro è ancora frammentario, vari studi suggeriscono che possano causare infiammazione, trasportare sostanze tossiche e microrganismi patogeni ai tessuti e soprattutto generare effetti a lungo termine sconosciuti.
Il vetro? Non sempre è l’alternativa più sicura per le bevande
Un indagine condotta dal laboratorio di sicurezza degli alimenti dell’Anses con lo scopo di determinare il grado di contaminazione delle bevande, ha evidenziato risultati inaspettati. Le bevande confezionate in vetro – quali ad esempio tè freddi, birre, cola e limonate – presentavano concentrazioni di microplastiche significativamente più elevate rispetto a quelle in plastica, cartone o lattina. In media, si parla di 100 particelle per litro, da 5 a 50 volte superiori rispetto agli altri contenitori.
Da dove arrivano queste particelle?
Durante tutte le fasi di riempimento, movimentazione e caricamento dei tappi sfusi, è assolutamente possibile (e probabile) che avvenga:
- Sfregamento meccanico tra i tappi, soprattutto nelle parti più delicate (la superficie interna, dove si trovano vernici, liner o guarnizioni polimeriche).
- Questo attrito può causare:
- Micro-abrasioni
- Distacco di frammenti plastici o verniciati
- Contaminazione diretta della linea di imbottigliamento e del contenuto della bottiglia
Fasi produttive dove può avvenire il rilascio

La maggiore criticità: la parte interna del tappo
Questa zona infatti contiene:
- Vernici protettive (soprattutto nei tappi metallici)
- Guarnizioni polimeriche (es. PE, PVC, EVA)
- Liner adesivi o sigillanti (talvolta multistrato)
Lo studio dell’Anses conferma che lo sfregamento può rilasciare micro e nanoparticelle. I ricercatori infatti hanno rilevato che il colore e la composizione delle microplastiche rinvenute erano coerenti con quelle della vernice, e molti tappi mostravano segni invisibili a occhio nudo ma rilevati al microscopio.
Curiosamente, acqua e vino sono state un eccezione, mostrando un numero di particelle decisamente inferiore, indipendentemente dal contenitore. Un’ulteriore dimostrazione che la tipologia di bevanda, il metodo di imbottigliamento e i materiali impiegati giocano un ruolo cruciale nella contaminazione.
Soluzioni per i produttori: accorgimenti pratici
I ricercatori Anses hanno verificato che alcuni semplici accorgimenti potrebbero ridurre sensibilmente la contaminazione:
- Un soffio d’aria sui tappi prima dell’incapsulamento riduce le particelle da 287 a 106 per litro.
- Un risciacquo con acqua filtrata e alcool (se compatibile) fa scendere il numero a 87 particelle per litro.
- Ottimizzazione delle tramogge e delle guide e in generale le modalità di movimentazione (trasporto e di stoccaggio) per ridurre attriti inutili
- Utilizzo di materiali interni più stabili o con minor rilascio di particelle
Conclusioni
Questi dati ci ricordano quanto sia complessa la sfida delle micro e nanoplastiche. Da una parte è evidente che sia necessario agire a monte, ridurre la produzione e l’uso della plastica, non solo per diminuire le microplastiche ma tutta quella galassia di inquinanti ambientali ad essa collegata (polimeri o additivi plastici, quali ad esempio ftalati, bisfenoli e PFAS). Dall’altra occorre un continuo aggiornamento delle pratiche industriali e anche delle nostre abitudini di consumo.
L’innovazione, ancora una volta, è il vero alleato della sicurezza alimentare. E la trasparenza – verso i consumatori e nei processi produttivi – resta il primo passo per un cambiamento credibile del sistema alimentare.
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